Come riconoscere la displasia dell'anca?
PUBBLICATO IL 21 DICEMBRE 2022
La Displasia Congenita dell’Anca è una delle malformazioni ortopediche più comuni, se non addirittura la più comune, riscontrata in età pediatrica, ma non solo. Si stima, infatti, che interessi 1-2 neonati (prevalentemente femmine) ogni 1000 e, se non opportunamente diagnosticata, può portare anche a gravi conseguenze come la lussazione del femore.
Approfondiamo l’argomento su come riconoscere e trattare questa patologia con il dottor Riccardo Accetta, specialista in Ortopedia della Casa di Cura La Madonnina e dell’Istituto Clinico San Siro nonché Responsabile dell’Unità Operativa di Traumatologia e Pronto Soccorso dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi-Sant’Ambrogio.
Che cos’è la displasia dell’anca
“Displasia indica un’alterazione anatomica di una parte del corpo, per cui la Displasia Congenita dell’Anca (DCA), detta anche Displasia Evolutiva dell’Anca (DEA), è una condizione in cui il bambino nasce con un’alterazione per la quale la testa del femore non si aggancia correttamente nella cavità che dovrebbe ospitarla (cotile o acetabolo) come, per fare un esempio, una palla da baseball che dovrebbe ruotare all’interno di un guantone in grado di accoglierla perfettamente. Non essendo collocata bene nel guantone/acetabolo, la palla/testa del femore rischia di fuoriuscire o arriva a fuoriuscire (lussazione)”, spiega il dottor Accetta.
Si parla comunemente di Displasia Evolutiva dell’Anca perché, ad eccezione dei casi più importanti e gravi già alla nascita, la sua evoluzione porta gradatamente la testa del femore a dislocarsi, quindi a lussarsi, dal cotile.
Come si riconosce
Esistono diversi livelli di DCA, che variano in base al grado di instabilità dell’articolazione o di fuoriuscita della testa femorale.
La diagnosi avviene tramite modalità non invasive. Durante la visita, il medico va a valutare alcuni aspetti dell’articolazione quali:
- motilità;
- aperture;
- eventuali asimmetrie, come ad esempio, nel bambino, il segno di Galeazzi (dal nome dell’ortopedico Ricardo Galeazzi), in cui al soggetto supino, con le ginocchia a 90°, se ne evidenzia una più alta dell’altra.
Come si riconosce nei bambini
Per i bambini si utilizzano anche manovre che, purtroppo, perdono anche di sensibilità con l’avanzare dell’età e dello sviluppo articolare. Il dottore va ad allargare e sollecitare l’anca che, se affetta da displasia, produce dei rumori caratteristici. Le manovre più note sono:
- manovra di Ortolani (dal nome del pediatra a cui si deve la sua invenzione): quando a seguito di determinati movimenti, la testa di un femore che non è collocata pienamente nell’acetabolo si trova ad essere riposizionata al suo interno, emette uno scatto;
- manovra di Barlow (dall’ortopedico T.G. Barlow): quando a seguito dei movimenti del medico, la testa di un femore che si trova nell’acetabolo, ma non vi alloggia correttamente, fuoriesce da questo, determinando uno scatto.
La diagnostica per immagini
L’esame obiettivo e le manovre dipendono molto dalla sensibilità e capacità del medico; pertanto, i test chiave per individuare la displasia dell’anca sono quelli di diagnostica per immagini e nello specifico:
- ecografia: si tratta dell’esame standard per la diagnosi di displasia dell’anca nei neonati fino ai 3-4 mesi di vita. È consigliata come screening entro i primi 3 mesi; non troppo precocemente in quanto possono verificarsi anche dei fisiologici ritardi di sviluppo dell’articolazione del bambino. Se, tuttavia, sono presenti ereditarietà e fattori di rischio per la lussazione, si consiglia di effettuarla entro le prime 6-8 settimane di vita.
- radiografia: se indicata dal pediatra o dallo specialista ortopedico, viene eseguita in adulti e bambini in età superiore ai 3-4 mesi, poiché è quello il periodo in cui l’ossificazione dell’articolazione può essere rilevata dai raggi X.
- tac: si effettua soprattutto in corso di terapia anche per pianificare e valutare gli esiti degli impianti protesici.
I sintomi della displasia dell’anca
Il dottor Accetta sottolinea come i sintomi della DEA in età infantile spesso siano pochissimi quali ad esempio:
- impari lunghezza delle gambe;
- asimmetria nelle pieghe della pelle delle cosce;
- mobilità e flessibilità ridotte agli arti inferiori di un lato del corpo rispetto all’altro.
Nei casi particolarmente gravi o degenerati, questa può essere caratterizzata anche da:
- dolore articolare;
- zoppia;
- impossibilità o difficoltà a compiere alcuni movimenti come ad esempio accavallare le gambe;
- instabilità.
Cause
Le cause della DCA non sono ancora note, ma possono essere presenti fattori legati a:
- ereditarietà, in particolare per quanto riguarda il sesso femminile, maggiormente esposto, e il lato sinistro del corpo o entrambi i lati;
- nascita in posizione podalica (con la testa collocata verso l’alto, invece che verso la bocca dell’utero);
- compresenza di altre malformazioni quali piede torto, piede piatto etc.
Conseguenze della displasia dell’anca
È importante che la displasia dell’anca venga diagnosticata il prima possibile per consentire una correzione nelle fasi di sviluppo e formazione osteo-articolare del bambino. Se la patologia non viene trattata in queste prime fasi, infatti:
- se di grado modesto, potrà portare ad un’artrosi precoce, anche nel giovane adulto, la cosiddetta coxartrosi. Questa patologia può, tuttavia, interessare anche un’articolazione corretta in età precoce che, seppur migliorata, non è riuscita a conseguire un aspetto e sviluppo normali ;
- se grave, potrà condurre presto ad una lussazione con conseguente accorciamento dell’arto, limitazioni articolari e zoppia.
Come si cura la displasia dell’anca
Una volta in possesso di una diagnosi, le terapie per la DEA variano in base a gravità della patologia ed età del soggetto, seguendo, ove possibile, un approccio di tipo conservativo. In alternativa, nei casi più gravi, si procede con la terapia chirurgica.
La terapia conservativa nei bambini
Nei bambini fino ai 6 mesi con casi da lievi a medi nella maggior parte dei casi vengono prescritti dei divaricatori, ovverosia dei tutori di tipologia e caratteristiche diverse (divaricatore di Pavlik, di Milgram, di Tübingen etc.) che, come indica la parola stessa, vanno a divaricare e flettere le gambe del bambino, immobilizzandole in una posizione che consente alla testa del femore di rientrare nell’acetabolo, andando a sfruttare gli stimoli di crescita per migliorare lo sviluppo e la conformazione dell’articolazione.
La terapia conservativa negli adulti
Per quanto riguarda gli adulti, nei casi in cui la gravità della patologia lo consenta, possono essere effettuate delle infiltrazioni articolari di sostanze autologiche, ovverosia del paziente stesso, che vanno a svolgere un’azione antinfiammatoria e rigenerativa. Le più comuni di queste sostanze sono:
- PRP (Plasma Ricco di Piastrine): al paziente viene prelevato un piccolo quantitativo di sangue che, ripulito dalle impurità, è ricco di piastrine;
- componenti del tessuto adiposo che, prelevate con liposuzione (in sala operatoria) e opportunamente purificate, sono ricche di cellule staminali.
La terapia chirurgica nei bambini
Le riduzioni e osteotomie si eseguono nel caso di bambini:
- in età superiore ai 6 mesi;
- affetti da DCA grave per la quale la terapia con divaricatore non ha funzionato o non risulta adatta;
- in presenza di una lussazione che non si è in grado di far rientrare manualmente.
L’unica soluzione è la chirurgia con un intervento effettuato in sala operatoria, che può essere una:
- Riduzione chiusa (o non cruenta): l’ortopedico pediatrico va a centrare e spostare manualmente il femore all’interno dell’acetabolo senza effettuare tagli importanti;
- Riduzione aperta (o cruenta): utilizzata nei casi più gravi. Viene eseguito un taglio più significativo per permettere al chirurgo di posizionare correttamente o in modo più angolato possibile la testa del femore nell’acetabolo. Una riduzione aperta può essere accompagnata anche da osteotomie, ovverosia procedure di riorganizzazione dell’area femoro-acetabolare con tagli delle ossa per riposizionarle e correggere deformità strutturali.
Dopo la chirurgia al bambino viene generalmente applicato un gesso per mantenere l’anca in posizione corretta durante la guarigione. La procedura chirurgica può essere preceduta o meno anche da una graduale trazione delle anche.
La terapia chirurgica negli adulti
È possibile procedere attraverso:
- l’artroscopia dell’anca;
- protesi anca.
Artroscopia dell’anca
L’artroscopia dell’anca è una tecnica mininvasiva che tramite delle piccolissime incisioni consente di inserire nell’area un artroscopio in grado di esaminare l’articolazione dall’interno, nonché di intervenire su di essa. Lo spazio anatomico dell’anca è molto limitato, pertanto si pone in trazione l’arto inferiore così da poter avere un’apertura sufficiente a far passare l’artroscopio e gli strumenti per le procedure correttive.
Protesi d’anca
Per quanto riguarda gli adulti, si rende necessario il ricorso ad un’artroprotesi dell’anca per ripristinare il corretto funzionamento dell’articolazione nei casi non adatti o non responsivi alla terapia conservativa di:
- DEA non diagnosticata e corretta in età infantile con dolore e difficoltà mobili o addirittura usura/distruzione di parti dell’articolazione;
- articolazione parzialmente corretta, anche in età infantile, che ha subito un’artrosi;
- evoluzione della patologia in lussazione dell’anca, che non si riesce a far rientrare manualmente.
Da un accesso anteriore o antero-laterale che consente di azzerare quasi del tutto il rischio di lussazione, si effettua un’incisione di 15-20 cm circa, da cui viene fatta passare, senza toccare la muscolatura, la protesi in metallo (generalmente titanio) che può andare a:
- rivestire solo la testa del femore che, quindi, per il resto viene conservato;
- sostituire tutto l’osso/cartilagine del femore e della cavità acebolare di alloggio che, dunque, vengono totalmente rimossi.
La protesi può essere cementata all’osso naturale, ma in Italia si predilige un approccio biologico che vede il corpo adattarsi naturalmente alla nuova struttura inserita.
“Le protesi d’anca consentono una qualità di vita ottimale e possono durare anche oltre 20 anni. Al paziente può successivamente essere necessaria un’attività fisioterapica per riacquistare la propriocettività, quindi la propria sensibilità nello spazio, ma generalmente può muoversi già il giorno stesso dell’intervento, con una considerevole riduzione del dolore rispetto al pre-operatorio”, conclude il dottor Accetta.